Di Ghostpoet ho sentito parlare su Blaluca circa 6 mesi fa. Una manciata di pezzi, alcune note biografiche ed un nome: Gilles Peterson.
Da lì in poi si trattava solo di attendere l’uscita del primo LP del poeta inglese, naturalmente per Brownwood record, l’etichetta di Gilles.
Il momento è arrivato, gli ascolti si stanno protraendo nel tempo ed ora posso dire che “Peanut butter blues and Melancholy jam” sarà uno dei dischi dell’anno e, assieme alla perla di James Blake, uno degli album più rappresentativi di questi primi anni post anni zero.
La voce di Ghostpoet è quella di un poeta stralunato, a tratti ubriaco, a tratti lucido e libero, altri imprigionato nelle sue stesse atmosfere notturne e lascive. Un qualcosa a metà tra Roots Manuva e la sua voce sbrodolante, acquosa e l’abilità di ricreare paesaggi urbani di un Beans o di un Mike Ladd. Pochi eguali comunque, solo verosimiglianze.
E, come tutti i nomi appena citati, Ghostpoet produce pure. Atmosfere fumose, nebbiose, dubstep con reminiscenze grime e bagliori dell’hiphop più ispirato. Ma è qualcosa di ancora diverso dalla somma delle parti. Basta ascoltare il singolone “cash and carri me home” per capire che il Nostro suona qualcosa di diverso. Di insperatamente nuovo.
Ecco, per un vecchio amante dell’hiphop sperimentale, quello di certe produzioni Warp e Ninja Tune, potrebbe rappresentare un nuovo squarcio in cui tuffarsi a capo chino. Un genere a parte, una musica con un groove irresistibilmente soul pur provenendo dalla scena UK bass.
La dopata “Run Run Run” e la notturna “Gaaasp” sono affreschi nuovi di situazioni urbane moderne, capaci di unire Londra, Berlino, Williamsburg e Bristol in un solo, profondissimo battito. Musica nuova, speriamo segni l’inizio di un trend.
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