Archive for the 'Recensioni – Cinema' Category

Numero Zero: le origini dell’hiphop italiano e qualche critica

Gli anni 90 sono stati un periodo magico per chi ne ha vissuto il sottobosco musicale: è in quel decennio che è andato a formarsi un movimento di rappers, writers, brakers e dj che in America già nel decennio precendente i “bros” iniziavano a chiamare “hiphop“: una controcultura urbana, molto più di un semplice genere musicale forma nella quale sarebbe arrivato (malconcio per certi versi) ai giorni nostri. Ballare per le strade, mettere a tempo dischi funk al fine di formare un tappeto sonoro per le rime di cantastorie poi conosciuti come rapper, disegnare opere darte sulle carozze dei treni: l’hiphop si alimentava con la libertà di espressione e la creatività dei suoi protagonisti, senza distinzioni di razza, cultura o provenienza.
Un movimento forte, liberatorio, creativo che nello spazio di vent’anni ha influenzato ogni campo umano, dal lettering al design, dalla musica all’arte, dalla gestualità alle parole che oggi noi tutti utilizziamo ignorandone spesso l’origine.

Difficile raccontare come quella cultura nata nelle strade e negli appartamenti del Bronx (New York) per mano di pionieri quali Dj Kool Herc e Africa Bambataa e dei loro “block party” (feste nelle quali il dj mettendo in loop due dischi uguali riusciva a creare le basi in 4 quarti, sulle quali i primi maestri di cerimonia mettevano in rima testi spesso in free-style a mo’ di moderno blues di strada), sia arrivata a declinarsi nel nostro Paese, difficile tracciarne esattamente i primi passi, i protagonisti.
Lo ha fatto il regista Enrico Bisi, torinese classe 75, con un lavoro filologico e storeografico minuzioso, andando ad intervistare su un arco temporale di 4 anni i protagonisti più illustri ed importanti della “scena”, ricostruendo di fatto in modo chiaro ed accessibile (una volta tanto) anche a chi del movimento non ha fatto parte, tutta la sua evoluzione: da movimento politicizzato associato ai centri sociali di Roma, Bologna, Torino, a vero e proprio fenomeno sociale evolutosi in parallelo alle tecniche produttive e di scrittura, di rapper e producer simbolo quali Militant A, Lou X, Ice One, Neffa, Frankie Hi-Energie, DeeMo, Kaos, Sangue Misto, Fabri Fibra. E sono proprio loro, attraverso racconti, aneddoti, rimpianti, sfoghi, a guidarci all’interno di una cultura per troppo tempo chiusa all’interno della sua stessa definizione di genere di nicchia, autocelebrativo, forse auto-fagocitante (lo capiremo più avanti).

Un’operazione non semplice quella di raccontare l’hiphop italiano ma che grazie ad un montaggio davvero logico ed ai racconti di Ice One, Danno del Colle der Fomento, Kaos, Fabri Fibra e soprattutto Neffa (forse l’esponente più importante ogni epoca del genere), fila via liscio e fa pure brillare gli occhi a chi, come il sottoscritto, ha vissuto quel decennio da “protagonista” attraverso la scrittura di dischi rap, l’organizzazione di jam (i party che davano spazio a tutte e 4 le discipline dell’hiphop attirando giovani di ogni estrazione alla ricerca del confronto e della continua scoperta di nuovi stili) con i protagonisti del film stesso ed il lavoro su fanzine autoprodotte ormai sepolte.

Difficile non emozionarsi davanti a Neffa che spiega con una consapevolezza rara, i motivi dello scioglimento dei sangue misto, davanti a J-AX e Tormento che ricordano com’era riempire le piazze di gente che ascoltava una musica del quale nessuno al di fuori degi appassionati aveva mai sentito una nota fino a quel momento (internet, il peer to peer e spotify erano lontanissimi e chimerici…ed in radio l’hiphop non esisteva se non all’interno del programma One2 One2 di Radio DJ condotto da Albertino prima e Irene La Medica dopo). Difficile restare freddi difronte a Kaos che ammette di non riuscire a scrivere nemmeno una parola senza pensare al fatto che tutto ciò che butti fuori è importante perchè le parole ti sopravviveranno.
E quindi impossibile dare un giudizio negativo ad un film che per la prima volta, fatta eccezione per l’altrettando importante pionieristico ed imprescindibile documentario sull’origine del free-style “Versibus Alternis“, aiuta a spiegare l’importanza del rap e della sua cifra stilistica dandogli dignità culturale.

Molto più facile invece risalire al perchè quel movimento è finito ed i suoi protagonisti non ne sono sempre usciti benissimo (c’è chi ha abbandonato la musica, chi si è dato ad altri generi): il particolarismo, l’autocelebrazione sempre e comunque, la scarsa capacità di percepirsi come un movimento unico e compatto e l’atteggiamento di chiusura ad altre contaminazioni, fatto assurdo per l’hiphop che nasce da proprio dalla contaminazione di stili, di molti dei protagonisti della “scena” di allora, sono tutti fattori che escono benissimo dalle parole dei protagonsti di Numero Zero, e che mio malgrado ho immediatamente riscontrato a fine proiezione (Trento, Teatro Sambapolis) essere ancora assolutamente presenti in chi ancora oggi si sente parte di quel movimento. Sono bastate 3 domande fatte da appassionati durante la serata per capire che alla fine erano più le attenzioni per le mancanze del film (l’assenza di interviste ad un personaggio chiave come Bassi Maestro per esempio) che per aspetti tecnici/distributivi/di storytelling messi in campo dal regista Enrico Bisi: un peccato perchè questo atteggiamento dimostra ancora una volta se mai ce ne fosse bisogno, quanto al rap interessa parlare del rap: quanto l’hiphop sia un movimento che si autocelebra e autofagocita e che si rende spesso inaccessibile a persone che se ne vorrebbero avvicinare ma che sono spaventate proprio da questo suo atteggiamento di base. E lo dice uno che ne ha fatto parte e che lo segue con attenzione tutt’oggi.

Spacca più uno o spacca più l’altro?”, molte delle questioni dell’hiphop si fermano qui ed ho purtroppo potuto constatare come dopo tutti questi anni di esistenza del movimento, si sia ancora fermi lì alle solite questioni. E proprio per questo allora il docu-film di di Bisi assume ancora più importanza: perchè attraverso la voce di chi ha raggiunto la giusta consapevolezza, smaschera tutta la scena, la mette a nudo per evidenziarne non solo la forza, ma anche le incessanti debolezze, che come dimostrato sono ancora fortemente presenti.

“Quel che rimane è quel che rimane, ma di quel che rimane in quanti sono distratti? Ma di quel che rimane in quanti ne escono intatti?”, rimava così Fabri Fibra nell’ultimo disco dei Sottotono, poi scioltisi, ed è forse questa la domanda che aleggia per tutto il film: cosa è rimasto, e di quanto ci siamo spostati da quel numero zero?
A chi prenderà in mano ora la scena l’ardua sentenza, con uno strumento in più a disposizione per capire davvero da dove veniamo e dove andiamo, noi dell’hiphop. Appunto.

@lucamich23

PS: Sono stati anni magici, riviverli per 90 minuti è stato impagabile.

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#Noah: il Noé vero è quello di Aronofsky

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Che Darren Aronofsky fosse un regista capace di arricchire le sue storie con un ultra-realismo con pochi uguali ad Hollywood, è cosa nota ai suoi estimatori. Già con “Pigreco il Teorema del Delirio” la fisicità superiore dei personaggi, unità alla profondità psicologica e concettuale del plot, Aron aveva dato prova di avere una sensibilità altra, fuori dal comune.

Con Noah, film ad altissimo budget ed altrettanto alte aspettatve, lo attendeva la prova più dura: quella del colossal, con cui tanti grandi registi indipendenti prima o poi hanno (ahimè) fatto i conti facendone le spese in credibilità e consistenza (l’ultimo a memoria: Neill Blomkamp con il suo bolso e sopravvalutato Elysium dopo la prova straripante a basso budget che aveva scodellato con District 9), era lecito aspettarsi un’interpretazione tutta sua del Noé biblico e del diluvio universale, e così è stato. Spiazza un po’ l’ipotesi fantascentifica e la scelta di ambientare le vicende in un locus ameno, al di fuori di spazio e tempo con unico riferimento certo la Terra…di oggi, di domani, di ieri, non è dato sapere. Spiazza ma arricchisce la storia di elementi stranianti che danno un iniziale senso di disagio e spaesamento che servirà ad Arofnosky per farci dimenticare la storia che conosciamo ed entrare nella sua, quella dove solo una parte di ciò che sappiamo è già scritta. Qui non siamo nell’antico testamento, siamo all’interno dell’essenza umana stessa: stiamo esplorando attraverso i dubbi struggenti di Noè, la dicotomia bene/male, amore/odio, in modo forse non inedito ma sicuramente efficace, fisico, corporale e soprattutto pensato.

noah-imgNoé non è un uomo buono, nessun uomo è stato creato per esserlo, così come Dio non è vendicativo in quanto tale, sono le scelte che entrambi devono affrontare per prendere il proprio posto all’interno dell’Universo, a determinare da che parte far pendere l’ago della bilancia: se a favore dell’amore o a favore dell’odio, che sono poi due facce della stessa medaglia, come dimostra benissimo la scena clou del film in cui Noé dovrà compiere una scelta che sfugge alla facile etichettatura di giusto o sbagliato in assoluto.

Aronofsky ci racconta tutto questo con il suo stile inconfondibile, forse più patinato del solito, forse non padroneggiando ancora a pieno un genere con il quale torna a cimentarsi in maniera molto più magnificiente e attesa rispetto a quanto fatto nel psico-fantasy “The Fountain“, ma sempre mettendoci il suo marchio, quello di un Caino che rifiuta di commercializzare totalmente la propria arte e vuole rimanere autoriale, nelle scelte di regia (vogliamo citare lo splendido stop-motion da cineteca che narrà l’evoluzione della terra?), nella fotografia e nella fisicità dei suoi personaggi. Lo dimostra d’altra parte anche la volontà di pubblicare una Graphic Novel (in Italia edita naturalmente da Panini) basata sulla sceneggiatura del film stesso rendendo di fatto l’opera cross-mediale.

noah-film-di-darren-aronofsky-arca-noèMa no, Noah non è il suo film migliore e non è probailmente un colossal. E’ un film rifiutato dal mondo mussulmano, discusso dal clero ma non ha la portata dirompente di un’opera alla Lars Von Trier nè la voglia di rischiare come un Requiem For a Dream dello stesso regista.
E’ però un film che sceglie di metterci davanti a diversi punti di vista, di farci capire quanto siano le scelte che l’uomo compie a renderlo ciò che è. Un film che com’è usanza del regista, parla di ossessioni e domande ambigue per le quali non esiste una risposta univoca. E scusate se è poco. Mostri di pietra a parte.

Voto 7

Luke

Doin’ it in the park: racconti dalle strade di New York

a2Probabilmente non tutti coloro che avranno voglia di leggere queste righe, familiarizzano con nomi quali Pee Wee Kirkland, Fly Williams, Corey Homicide Williams, Smush Parker, Earl The Goat Manigault.
Si tratta di b-ballers, di giocatori di pallacanestro che hanno fatto la storia del gioco non esattamente, o meglio non sempre, su parquet prestigiosi delle leghe pro, bensì sui campi che contano maggiormente per la comunità afro-americana: quelli di asfalto e cemento di New York, dove la pallacanestro da sempre è THE CITY GAME (ed il seminale libro omonimo di Pete Axhelm ne spiega bene il perchè). La letteratura e la filmografia sull’argomento non è poi così scarsa al giorno d’oggi e anche chi non è cresciuto a palla a spicchi e “black jesus” (il “the city game” italico scritto dall’immenso Federico Buffa) o American Super Basket ed i suoi inserti “on the road”, ha oggi comunque la possibilità di approfondire un bel po’ l’argomento grazie a film come il biografico “Rebound” che racconta la storia di Earl “The Goat” Manigault, uno dei più forti giocatori di sempre a detta di tutti quelli che sulla strada gli hanno dato battaglia (Kareem Abdul Jabbar in testa) ed a cui oggi è intitolato un campo a New York sul quale ho avuto tra l’altro la fortuna di poter giocare nel 2011, al fondamentale “He got Game” di Spike Lee ma anche grazie a tutti gli And1 Mixtapes usciti negli anni ’90 e recuperabili oggi su youtube. Dal lato bibliografico ci hanno poi pensato in Italia appassionati e profondi conoscitori dello street game con Cristian Giordano con “The Lost Souls” e Daniele Vecchi con “Playground Stories” a colmare le lacune che per forza di cose il nostro paese ha sul basket street a stelle e strisce (le strisce verdi e nere però, quelle della bandiera afro-americana).

doin-it-in-the-park-smRisale però a questi primi mesi del 2014 uno dei documenti più importanti e significativi pubblicati sull’argomento: DOIN’IT IN THE PARK: pick up basketball in New York City, documentario sul basket di strada realizzato dalla summa autorità in merito: Bobbito Garcia, già autore del seminale libro (è stato in assoluto il primo sull’argomento) “Where did ou get those?” pubblicazione che ha contribuito a diffondere e documentare il mito delle sneakers così come oggi lo conosciamo (ed indossiamo) tutti noi, ballers o non ballers. Bobbito assieme al fido compare Kevin Couliau si è messo in testa di fare ciò che sa fare meglio: armarsi di sneakers e pallone a spicchi e girare più di 180 campetti della città del basket per eccellenza. Da Harlem al Queens, passando per Brooklyn, Manhattan e perfino per Staten Island: 2 palleggi in ogni campo considerato di riferimento per la street culture a raccogliere tendenze, testimonianze e regole non scritte di quella che è la forma più naturale e vera del gioco inventato da James Naismith a fine ‘800, il pick-up game, quello che nasce spontaneamente formando 2 squadre di 3/4 o 5 uomini per parte e dà il là a partite dove a contare sono prima di tutto l’onore ed il rispetto che ognuno deve sapersi conquistare sul campo, soprattutto nelle situazioni infinite di one on one, di uno contro uno. “No fucking zone, no shit like that, only one on one, chest to chest basketball” come dice nel documentario Pee Wee Kirkland, uno che per quello che narrano le leggende di strada, bisognerebbe venerare come si è venerato il culto di MJ: “niente zona, niente merdate simili: solo uno contro uno, petto contro petto, questo è lo street basket”.

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80 minuti di pura estasi cestistica conditi da pezzi hiphop selectati direttamente dalla collezione di dischi di Bobbito, tra le altre cose DJ della prima ora che con i suoi mixtape (quelli originali, impressi su musicassetta) negli anni 90 ha contribuito significativamente alla diffusione prima ed al successo poi di gruppi quali Wu-Tang Clan, Gangstarr, Jurassic 5.
80 minuti per sognare le strade americane e le sue partite infuocate, per conoscere meglio gli imprescindibili Holocombe Rucker Park (155th street ad Harlem), Goat (Harlem), The Cage a West 4th street (The Village), e ancora Soul i the Hole, Dycman Park e molti altri campi considerati i templi del basket di strada. Ma c’è spazio anche per note di colore quali i giochi più praticati in assenza di possibilità di giocare una vera e propria partita, quindi il celebre Horse o il 21, e gli outfits perfetti per evitare di rendersi ridicoli sul campo (evitare accuratamente canotte di team nba e completi interi, pena la perdita totale della street credibility e del rispetto della comunità).

Un trattato di cultura black e sportiva che vale davvero la pena di recuperare e studiare. Che siate già padroni della materia o neofiti. Perchè “puoi giocare nell’nba per 15 anni, al college per 4, nella tua squadretta per 20, ma giocherai al campetto per sempre, finchè le membra ti reggeranno”.

#doinitinthepark: un must have. You know what I’m saying?
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Luke

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Il cinema ai tempi dei “figli di mezzo della storia”

tyler_durden“Siamo i figli di mezzo della storia” diceva Tyler Durden nel film che ha reso David Fincher un regista di culto per molti della mia generazione (nati negli anni 80). “Non abbiamo nè uno scopo nè un posto, non abbiamo la grande guerra nè la grande depressione, la nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, divi del cinema, rock star…” Lo diceva la pellicola ormai di culto che va sotto il nome di Fight Club, saccheggiata da dischi rap, remixata e rielaborata miriade di volte, tante da diventare manifesto di quella che è appunto una generazione senza grosse direzioni se non quelle dettate da pubblicità, telegiornali, messaggi mass mediatici.
Allora il film metteva in bocca a Brad Pitt una realtà post consumismo 80’s che non lasciava intrevedere niente di buono per l’immediato futuro. Lo faceva come monito, come memento al suono di un grido in stile “svegliatevi dormienti”, che se risuonato nella maniera giusta avrebbe potuto in qualche modo risultare salvifico.

the-bling-ring-whysoblu-6E’ passato qualche anno dall’uscita di quel film, così come dal diverso, ma per certi versi accomunabile Trainspotting, e  nel 2013 in sala troviamo pellicole (sigh, sono pure diventate digitali nel frattempo) che parlano delle conseguenze del mancato ascolto di quel messaggio…la generazione X è diventata Y: i riferimenti televisivi sono diventati non più solo i divi del cinema e le rock star, ma tutti coloro che dall’essere nessuno sono passati ad essere celebrità senza sapere bene come e senza avere alcun talento. Semplicemente televizzando se stessi. I riferimenti siamo diventati noi stessi grazie ai reality prima e ai social network poi. L’apparire è diventato imperante, l’essere solo se condivisi e auto-promossi è diventato lo status quo senza che ce ne accorgessimo. Con un effetto devastante su quella generazione e su quella immediatamente successiva, che in mancanza di grandi guerre o depressioni, ha deciso di autofagocitare se stessa.

Spring-Breakers-selena-gomez-33260560-1500-1372Parlano di questo 2 film usciti nel 2013 e mi troppo chiacchierati in Italia, se non dagli amanti del cinema fatto in un certo modo: The Bling Ring di Sophia Coppola e The Spring Breaker di Harmony Korine. Sono due film diversi nella realizzazione sia da un punto di vista puramente visiva che di narrazione, più asciutto e freddo il primo, più musicale, frenetico e cromatico il secondo; ma che parlano entrambi di quella generazione di cui sopra, in particolare della sua de-generazione.
Prendete i riferimenti distorti comunicati loro malgrado dai rapper afroamericani più commerciali, conditeli con una cromia caleidoscopica, potenziateli con i pezzi dub-step ed hiphop più tamarri del momento (sì, Skrillex abbondanella OST  nel caso ve lo state chiedendo), metteteci alla recitazione icone pop prese direttamente dai programmi per ragazzi di Walt Disney e innalzate suonate un lento di Britney Spears come se fosse l’ultimo pezzo che sentirete in vita vostra: avrete The Spring Breaker: il film più spiazzante, reale ed attuale su ciò che siamo diventati. Ora pensate a facebook come ad un gioco reale, un apparire non solo virtuale ma fisico, aggiungete Emma Watson a capo di una banda di ladruncoli da strapazzo iperinformati sui vestiti delle celbrità ed in grado di girarsi Beverly Hills rubando gli stessi vestiti di villa in villa: avrete The bling Ring, che per altro è una storia vera.

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Morte dei valori? Generazione bruciata che manco James Dean? Esagerazioni contemporanee? A chi ha capacità di analisi la sentenza. Di certo 2 film di grande spessore, dal ritmo quasi opposto: veloce e in stile video clip, con piani sequenza mozzafiato quello di Korine, lento, sornione ed estremamente dub-step per i suoi silenzi e stralunatezza quello della Coppola; uniti dalla disarmante capacità di catturare le storture moderne, quelle che sono post industriali, post capitalismo, post moderne, post tutto e che perciò non sono niente.

E se tutto è post possiamo davvero dire di essere qualcosa di attuale? La risposta a due film coraggiosi quanto “naturali”. Due fotografie speculari che raccontano cosa è andato storto da Tyler Durden in avanti. Parecchia roba.

Luke

La grande bellezza…della morte – di Paolo Sorrentino

All’ultimo film di Paolo Sorrentino mi sono approcciato con curiosità e soggezione allo stesso tempo: dopo il gran battage messo in piedi per il festival di Cannes e che ha portato la coproduzione Italia/Francia al terzo posto negli incassi al botteghino a 3 settimane dall’uscita, non potevo che avvicinarmi così all’ultima fatica di quello che considero senza mezzi termini il migliore regista italiano contemporaneo (Il Divo e This Must be The Place, piacciano o meno, sono lì a testimoniare l’immensa tecnica e cifra stilistica del nostro).

Mai mi sarei aspettato però qualcosa di così agghiacciante, riflessivo, introspettivo, terribilmente angosciante.
Accanto ad un’esecuzione tecnica impeccabile fatta di scene giustapposte, di continui rimandi semiotici, di smottamenti concettuali quanto visivi, dati da un montaggio che salta in alcuni casi freneticamente da un personaggio all’altro, da una situazione paradossale e grottesca all’altra, accanto a tutto questo, Sorrentino ha voglia di raccontarci l’effimera bellezza della vita e della sua inevitabile fine. La grande bellezza parla di MORTE dalla prima all’ultima scena. Sono morti quei personaggi cocainomani, starlette, ex divi dello spettacolo, cantanti, politicanti, che si ritrovano a ballare la dance in discoteca nella scena d’apertura. Sono morti i romani dell’alta borghesia, che provano ad ingannare il tempo con passatempi inevitabilmente e comunque noiosi, che provano ad ingannarsi iniettandosi botulino nelle feste al botox romane superesclusive.

Sono morti i trenini all’interno delle feste, che per ammissione del personaggio di Toni Servillo (monumentale) “sono belli perchè non portano proprio da nessuna parte”. Sono morti tutti coloro che annoiati dalla troppa bellezza che la vita ha concesso loro, non comprendono più quale sia il senso di stare al mondo se non quello di bere, festeggiare, scopare, tirare di coca. Sono morti i nostri politici che in questi giochetti si perdono dall’alba dei tempi…dall’antica Roma.

Roma e la morte vanno di pari passo, Roma è la citta eternamente ferma, dove i personaggi scompaiono nella notte per riapparire qualche ora dopo, tali e quali al giorno prima e quello prima ancora, in una totale stasi di intenti e movimenti. Proprio come la stasi delle colonne e dei monumenti, immobili, austeri, giudicanti.

Sorrentino si è confrontato con un tema fortissimo, avvicinandosi anche se in maniera meno spirituale e totalizzante, alla poetica di Terrence Malik (The Three of Life) e lo ha fatto scegliendo di raccontare Roma ed i personaggi tipici che la rendono viva morta. Ma credo che la scelta della città non si limiti alle sue notti eterne ed alla sua architettura, in qualche modo decadente e “passata”. Il regista ha scelto Roma perchè Roma è Roma non tanto per il suo impero ma per la sua caduta. Roma rappresenta la caduta dell’Occidente, come ha scritto il visionario Tommaso Pincio (Pulp Roma), e con esso dei valori dell’uomo che per separarsi dalla morte ha bisogno continuo del desiderio.

Quando questo scompare, scompare anche l’umanità.
Rimangono maschere danzanti e personaggi senza una meta, ma solo con un’inevitabile fine…
E che bellezza vedere raccontato tutto questo per immagini. Ad oggi la miglior uscita al cinema del 2013.
Menzione d’onore per Sabrina Ferilli, forse l’incarnazione stessa di Roma in un personaggio davvero ben riuscito ed interpretato.
Voto 9

http://www.youtube.com/watch?v=cJ8O-Y2CXk8

Quella casa nel bosco: se l’horror diventa postmoderno

Premetto che di film horror pregevoli, che evitino di cadere negli innumerevoli cliché del genere o che abbiano una qualche sorta di originalità nella trama o quantomeno nello stile di regia, non ne vedevo da almeno 4/5 anni buoni…diciamo dal terzo episodio si Saw l’enigmista (i successivi fino al 7 sono del tutto trascurabili). Ma alla classica casa nel bosco in cui si perdono 5 simulacri di personaggi tipici (topici) da film horror mi sono avvicinato grazie ad una grande recensione cannibale  ed al nome dello sceneggiatore…Joss Whedon, amato non tanto al cinema per quel che mi riguarda, ma sulle pagine di Astonishing X-Men (semplicemente il miglior arco narrativo dei mutanti post Grant Morrison) e sulla carta (appunto) capace di invenzioni postmoderne degne del migliore John Barth.
Capita così che per una volta le aspettative siano rispettate in pieno. La casa nel bosco non si rivela solo un meta film sul genere horror che ci porta in terreni parodistici dove nemmeno il miglior Wes Craven si era spinto (con Scream), ma è forse una delle più interessanti riflessioni sul sistema dell’intrattenimento cinematografico, sulla finzione filmica e anche sull’animo umano e sulle proprie paure.

Siamo davanti ad un film in cui tutto è parodia, aperta parodia, ma che continua a parodiare perfino se stessa, un film dove i protagonisti comprendono solo a tratti di essere dei burattini nelle mani di chi vuole che i loro comportamenti assomiglino a quelli dei personaggi di un film horror ed in cui da spettatore si ricerca sempre un fine ultimo alla follia, fine rappresentato dal film stesso.
Se devo trovare un paragone lo devo cercare in tutt’altro genere cinematografico e dico che Quella casa nel bosco stà al genere horror come Shrek ai cartoni animati.

La macchina dell’intrattenimento è qui dispiegata per analizzare se stessa in un modo davvero originale e sì, geniale.La puttanella, il secchione, il mattacchione, la verginella e lo sportivo sono i 5 stereotipi di personaggi dal film horror sacrificati per il divertimento puro dello spettatore (sia nel film stesso che nella realtà) e per un bene (nel film) più alto ed incompreso (nella realtà).

Ci voleva un creativo prima che un abile regista, per autoanalizzare il cinema in questo modo. Ci voleva un creativo per ridare senso ad un genere che, salvo gli sporadici casi rappresentati dalle pellicole allucinate di Rob Zombie e del succitato Saw, aveva ormai perso da anni, almeno per chi scrive, il suo interesse.

Ed infatti “The cabin in the woods” non è quello che si può definire un film horror. Di più non dico: guardatelo!
E’ geniale.

Bronson: you Drive me crazy!

Il nome di Nicolas Winding Refn potrebbe non dire molto al grande pubblico, soprattutto a quello italico. Sarà che i suoi film nel nostro paese passano sempre per brevissimo tempo al cinema, il tempo di un venerdì sera al Lumierè o di un mercoledì nei multisala. Sarà che l’Academy ci ha messo del suo ignorando alcuni suoi capolavori diversamente osannati a Cannes, Londra e Sundance Festival, contribuendo a far passare in sordina anche l’ultimo suo film…quel Drive che nel 2011 è stato a mio parere (e non solo mio visto che Cannes gli ha dato la palma d’oro per la regia)  il miglior film dell’anno, quello con più spunti e poetica cinematografica.

E cosa spaventa così tanto nei film di Winding? Forse l’anticonvenzionalità dell’approccio con cui viene presentata la violenza sul grande schermo: come una sorta di sfogo fanciullesco di una rabbia repressa, come un atto liberatorio mal accettato dalla società. Come una deviazione quasi naturale e necessaria, un de-lirio, un’uscita dal solco ordinato preposto per noi tutti. Si spiega forse anche così il ritardo con cui in Italia (ma anche in altri paesi europei) è arrivato in distribuzione Bronson, film realizzato da Winding già nel 2008 e arrivato a noi solo nel corso nel 2011, passato sotto semi-silenzio e confezionato direttamente per il mercato dell’home-video.

Bronson è la vera storia di Charles Bronson, criminale inglese contemporaneo psicotico ed iper-violento che fin dai primi anni ’70 è conosciuto come il criminale più famoso dello United Kingdom. Oltre 20 anni di cella in isolamento, centinaia di prime pagine sui quotidiani nazionali, un numero incalcolabile di persone picchiate fuori e dentro le numerose prigioni in cui è stato internato, diventando di fatto una vera e propria celebrità, un anti-eroe nel senso più revisionista del termine.

Ho visto di recente il film in DVD e devo dire che, sebbene un paio di gradini sotto a Drive, anche questa pellicola del regista svedese si contraddistingue per diversi approcci originali ed estremamente personali a regia (Winding fa un grande e diversificato uso delle ottiche grandangolari che contribuiscono a schiacciare l’immagine ed a creare per converso un effetto claustrofobico quasi parossistico delle celle di progionia già piccole e anguste di per se), fotografia (con luci in stilo circo), musica (dance anni ’80 anche qui) e tempi narrativi (giustapposti). E la violenza per cui probabilmente il film è stato fermato per un po’, assume un senso estetico di livello assoluto: un po’ come in Drive appunto (si veda la scena del bordello) o in Arancia Meccanica, o ancora (stiracchiando) in Funny Games. Cosa che a ben vedere, vale da sola il prezzo del biglietto DVD.

Un film che vale la pena di vedere quindi, non solo per saperne di più su Bronson (da sapere c’è davvero poco: era un picchiatore puro, senza scopo se non lo stesso picchiare ed essere picchiato), ma soprattutto per rifarsi gli occhi con un’estetica tutt’altro che scontata, tutt’altro che già vista.

Ecco appunto, se poi questi film ce li facessero pure vedere non sarebbe poi tanto male.

Voto: 7+
Luke

 

Drive: se il dubstep diventa stile narrativo

Lo confesso, erano alcune settimane che attendevo un film cerebrale, profondo, dal fascino non immediato e con una scenegiatura capace di stupirmi. Sarà per questo che appena ho letto in rete di Drive, mi sono subito lasciato affascinare dall’opera del regista danese Nicolas Winding Refn, vincitore del premio alla migliore regia al recente festival di Cannes.

I presupposti per un buon film c’erano tutti: protagonista senza passato, sospeso tra autismo e lucida follia, perso nei suoi pensieri e nella sua dimensione solitaria in mezzo al caos di una metropoli come Los Angeles, qui rappresentata come un labirinto di strade in cui solo l’eroe riesce a districarsi, lasciando perdere lo spettatore tra semafori, scorciatoie e vicoli cechi. Non solo, già il trailer faceva intuire un’atmosfera a tratti Tarantiniana, a tratti alla Brian De Palma: esplosioni di violenza apparentemente ingiustificata, cammino dell’eroe che trova se stesso nel profondo delle sue paure e dei suoi sentimenti di isolamento dal mondo. Una riproposizione di alcuni stilemi propri di un certo grande cinema, un clone direbbero alcuni, ma quanto mai reso intrigante da tempi e modi di regia.

A colpire infatti, oltre ad una fotografia impeccabile (tenete a mente la scena in cui il “driver” entra in un bordello per uccidere a martellate in testa un boss della mala…è pura poesia pulp), sono soprattutto le lunghe pause tra un dialogo e l’altro, l’assenza totale, almeno apparentemente, di empatia del nostro personaggio, i silenzi sospesi tra un’espressione e l’altra. Silenzi che precedono attimi di pura crudeltà, esplosioni da colpi nello stomaco. Un approccio estremamente dubstep, quello suonato alla James Blake per capirci: quiete e tempesta, synth minimali ed esplosione di bassi.

Colpi in pancia. Questo è stato per me Drive, un film assolutamente imperdibile in una stagione cinematografica non proprio ricca di capolavori. Non solo, un film che non si limita alla bellezza estetica, ma cura anche quella uditiva grazie ad una colonna sonora estremamente eighties ma capace spesso di richiamare anche l’elettronica contemporanea. Se volete seguire il cammino di un’eroe di cui nessuno parlerà, eccovi serviti.

Voto 8/9 – Luke

Trailer:

La disturbante bellezza del “cigno nero”

Disturbante, poetico, ipereale, catartico, viscerale. E’ il canto straziante e dannatamente intenso di Darren Aronofsky, assurto a nuovo Cronenberg, a cantore principe della fisicità disturbata, tumorale, sottocutanea.

Il suo cigno nero è cinema esplorativo, indagatore, psicoattivo, allucinato. Si palesa nell’utilizzo delle soggettive, dei controcampi, di telecamere a spalla, di movimenti continui e inquietanti, si concretizza in un clima di tensione fisica costante, di metamorfismo pronto ad accadere.

E’ cinema fatto di aggettivi, di grigi, di linee di confine, di separazioni e scissioni interne. E’ uno sguardo affilato che squarcia le carni per guardare dentro l’anima, coglierne psicosi, paure, dissociazioni. E’ un approccio alla narrazione capace di sfondare i generi, di confutarli e metterli in continuo contrasto.

Il cigno nero è il pianto di “requiem for a dream“, lo squarcio in testa di “pigreco il teorema del delirio“, la schizzofrenia di “the wrestler” e l’introspezione onirica di “the fountain“. E’ summa di linguaggi e concetti.

Il cigno nero è la bellezza che abbraccia il lato oscuro. E’ anoressia, bulimia, è stress, è paranoia, è ossessione per i propri obiettivi, il proprio corpo, il proprio essere. Tutto in una sola pellicola. Tutto in una sola, grandissima interpretazione, da storia del cinema. Tutto negli sguardi alluncinati di una ballerina (Natalie Portman), nel suo allucinante obiettivo finale che richiede il superamento del proprio io, delle proprie paure e delle proprie catene (materne, come in molte malattie).

E’ una storia moderna, fatta di malattie moderne, di allucinazioni, di sdoppiamento della personalità (cigno nero, cigno bianco) e ricerca di unificazione (cigno nero).  E’ inquietudine fisica e morale.

Ed è abbandono.

Dannato, auspicato, liberatorio abbandono.

Luke

Exit Through The Gift Shop: a Banksy movie

Si chiama Exit Through the Gift Shop ed è il più grande film/documentario sulla street art mai realizzato…nel senso proprio e compiuto di questa espressione.
Il film infatti esiste, ma di fatto non è mai stato montato nè divulgato. Dentro ci sono tutti gli artisti di strada più conosciuti del mondo underground di oggi: Banksy, Obey, Invaders, Burf e l’artista/regista del documentario stesso: Mister Brain Washed.

Si tratta di un assurdo: un film che doveva essere girato da tale Terry Guetta, cine-maniaco che vive, realmente, filmando ogni momento della sua vita fin dall’età di 18 anni (oggi ne ha 36) e che per caso, si ritrova a seguire i primi artisti di strada tra i quali il conosciutissimo Invaders, riprendendone per intero i loro processi creativi dal concept dei progetti alla realizzazione in piena notte: graffiti, stencils, stickering. Street art a 360 gradi così come oggi la intendiamo. Attraverso questo documentario, che vediamo ma che non è quello che Guetta aveva inizialmente girato e concepito, riusciamo per la prima volta a seguire le gesta degli artisti di strada dalla loro prospettiva. Fino ad arrivare ad incontrare (in realtà rimane sempre nell’ombra e con voce camuffata) lo street artist per eccellenza: Banksy. Colui che ha dipinto il muro del pianto per primo, colui che è riuscito ad intrufolarsi al museo Louvre e a lasciarvici (illegalmente) i propri quadri. Colui sul quale da 10 anni ormai ci si interroga: artista o vandalo?
Guetta riesce a contattarlo, a conoscerlo in prima persona, a farlo conoscere a noi spettatori, ad entrare nel suo atleier e a mostrargli il suo film, quello che noi stiamo pensando di vedere e che Bansky gli…boccerà clamorosamente.

E’ da questo momento in poi che Terry rivela allo spettatore che ciò che sta vedendo è solo un documentario di come il più grande documentario sulla street art in realtà non sia mai stato realizzato…perchè non è quello che da spettatori stiamo vedendo e seguendo con passione, bensì un altro che, appunto, non vedremo mai (se non per 14 folli minuti nei contenuti speciali del DVD). Una follia, un concept creativo estremo, un espediente perfetto per narrarci le gesta di Terry Guetta, conosciuto oggi come Mister Brain Washed e quotato all’asta, grazie ai suoi lavori ispirati dall’arte del mentore Banksy, a non meno di 100.000 dollari a pezzo (sua per esempio la cover del recente album Greates Hits di Madonna).

Insomma attraverso gli 80 minuti di EXIT THROUGH THE GIFT SHOP (disponibile in DVD da un mesetto circa), film tra l’altro candidato agli oscar 2011 come miglior documentario (!), seguiamo le gesta di uno sconosciuto filmaker che con l’intento di girare un film sulla street art e sul suo idolo Banksy finisce per essere instradato da quest’ultimo alla street art, e a diventare per davvero un artista ed un performer amatissimo da critica, pubblico e scena underground.

Quindi da tutti…tranne che da Banksy che, forse fingendo dall’inizio, mette la sua firma sulla cover del DVD (il film figura come girato e prodotto da egli stesso nei credits) ma si dissocia nei titoli di coda del film su quanto fatto da Guetta. Ma è così che Banksy riesce ad esordire anche nel mondo del cinema: prendendo allegramente per i fondelli gli ambienti fighetti dell’arte e ironizzando sulla casualità con cui si può diventare un caso mediatico.

Ma chi ci capisce più nulla alla fine tra ciò che è reale e ciò che non lo è?
Solo una cosa è chiara: per ogni amante della street art in ogni sua forma EXIT è IL DOCUMENTARIO, o almeno, penso che lo sia.

Luke

PS: Banksy è un genio
PS2: Obey è la “matita” dietro al famosissimo ritratto di Obama (sì, quello giallo blu e rosso)
PS3: Banksy è un genio


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