Senza troppi clamori circa un mesetto fa è uscito per Anticon, etichetta di riferimento per l’avant/sperimental hiphop (o comunque lo si voglia chiamare) nei primi anni zero, un disco-progetto di 4 pezzi scritto o 6 mani da un terzetto non troppo misterioso ma inedito che va sotto il nome di S/S/S. Dietro ognuna di queste S si nasconde un personaggio di rilievo per la musica indipendente americana: Son Lux soulsinger abstract-pop, SufJan Stevens producer folk/pop e Serengeti rapper chicagoano “coscienzioso” di casa Anticon rivelazione dello scorso anno (il suo Family & Friends è stato uno dei più significativi dischi rap del 2011). Tre S maiuscole che sono riuscite nello spazio di 4 tracce iper-articolate eppure così leggere da ascoltare, a raccontare l’evoluzione dell’elettronica e del rap ad esso connesso nell’ultimo decennio.
Partendo da suoni ascrivibili ad una possibile progenie dei Clouddead, sono riusciti a mescolare pop/folk-rap, downbeat e perchè no, anche post dub-step, in 4 pezzi che non esito a definire perfetti nella loro caledoscopia. Basti ascoltare il singolo-mondo “museum day” che da solo riesce a dare un’idea di quali siano le possibili forme della musica attuale provenienti dal sottosuolo, da chi fa della ricerca sonora e della fuga dalla banalità il proprio credo.
Non so se questo “Beak & Claw” avrà mai un seguito su lunga distanza, quel che è certo è che lo si può mettere in repeat all’infinito senza mai annoiarsi di scoprirne nuove sfacettature.
Un po’ come successo ormai più di 10 anni fa con le primissime uscite Anticon.
Saranno almeno 5/6 anni che durante le infinite sessioni di digging che metto in atto nei negozi di dischi di mezzo mondo (New York, Londra, Chicago, Amsterdam, Monaco, Berlino, Bologna ecc. ecc.) immancabilmente mi muovo al termine dagli scaffali alla cassa chiedendo, a volte timidamente, a volte con molto più coraggio a seconda della dose di black music di cui mi pare fornito il negozio, se per caso, tra i classici scatoloni ammassati e polverosi che contraddistinguono i reparti soul/ghospel, ci sia per caso traccia di una certa “Wendy Rene” e del suo “After Laughter comes tears“.
“Whuat da ya say? Guendy Twene?” la risposta che più di una volta mi sono sentito dire. “I dunno“, l’altra classica. “Never heard ‘bout it”, la più scoraggiante.
Ma sì, è la soulsinger campionata dal Wu-Tang Clan in 36 Chambers per il pezzo Tearz. Niente, vuoto assoluto.
Solo una volta, in un negozio Jazz di Chicago, un commesso mi ha dato, non dico una speranza, ma almeno il sentore che non mi stessi inventando tutto e che quel pezzo apparso poi anche in colonne sonore prestigiose come quella di Slevin patto criminale, e re-interpretato in maniera magistrale non troppo tempo fa (2007) persino da Alicia Keys per il suo album “As I am”, esistesse sul serio e non solo nella mente di un ragazzo bianco proveniente da un paese sperduto nell’alto Trentino che di soul si suppone debba saperne meno di zero. Ora non mi considero certo un esperto totale in materia, ma un po’ mi sento di masticarla sta storia della black music e del suo percorso e se i Wu-Tang hanno campionato Wendy Rene e la Stax records l’ha messa sotto contratto nel ’64 qualcuno doveva e dovrà pur conoscerla! Eppure niente di niente, nada, zero, nisba.
Fino al 10 febbraio 2012…data nella quale l’etichetta di Seattle, lontana solo apparentemente dall’influenza musicale del lungo Mississipi e del Tennesse, luogo dove dimora tutt’oggi la vecchia vedova Wendy, l’etichetta dicevo che va sotto il nome di “Light in the Attic” ha deciso di recuperare, rimasterizzare e ristampare in doppio vinile da 180 grammi, ogni singolo pezzo mai inciso (2 inediti compresi) da Wendy e dal suo gruppo soul “The Drapels“. Un piccolo sogno musicale che diventa realtà.
Il disco è accompagnato da una lunga intervista a Wendy fatta proprio a casa sua nel Tennesse nel novembre 2011. Vi si legge la genesi del pezzo che l’ha resa celebre (almeno fino a quando la memoria dell’umanità intera è stata resettata e lei è canduta nel dimenticatoio), la storia commovente degli inizi con la Stax (l’etichetta soul più importante della storia della musica che ci ha regalato Othis Redding, The Bar-Kays, Isaac Hayes, Brooker T) all’età di 17 anni e si apprende della solarità di questa donna oggi rimasta sola in mezzo ai vecchi ricordi dei tempi che furono. I suoi figli qualche anno fa le hanno fatto sentire i pezzi dei Wu-tang e di Alicia che riportano i sampler di After Laughter, ci raccontano abbia sorriso e abbia detto “What? My Song? That Old? What?”.
E così la magia continua, fomentata da qualche rara immagine di Wendy scattata ai tempi che furono.
Ecco, se c’è una musica che ha valore, anche se ristampata e confezionata per i feticisti del genere, per me è questa, per la storia che ha avuto (come dimenticare le note di tearz del Wu Tang suonate da RZA durante il concerto al link del marzo 2003?), per la ricerca che ha richiesto, per le emozioni che mi ha dato tenere in mano finalmente un oggetto fisico con dentro incisa la voce di Wendy Rene. Impagabile.
Il 2011 è stato un anno ricco di uscite discografiche molto interessanti (pubblicherò qui la mia personalissima classifica entro Natale), e l’autunno ha dato un’ulteriore ventata di freschezza con uscite estremamente valide: The Black Keys, Emika, Mike Ladd e, un po’ a sorpresa dato che il loro album risale a nemmeno un anno fa, The Roots.
Il 13° album della band hiphop di Philly si intitola “Undun” ed è senza dubbio il punto di accesso più complicato alla loro encomiabile carriera. Si tratta infatti di un concept album dal suono molto soft che protrae in qualche modo il mood introspettivo già introdotto sul precedente “How I got over”. Pochi beat, parti orchestrali, melodie riflessive e maliconiche spezzate dal rap duro di Black Thought (che si conferma ancora uno dei migliori lyricist sulla piazza). Un suono rotondo, introspettivo, addirittura definibile ostico se non approcciato nella maniera corretta.
“Undun” non è sicuramente un capolavoro ma rappresenta un momento importante nell’ambiente hiphop tanto quanto nella carriera dei Roots e per questo ho voluto darne una mia interpretazione. Trattasi infatti di un concept album incentrato sulla figura reale-immaginaria di Redford Stevens, un ragazzo nero del ghetto come tanti ce ne sono negli USA, di cui ripercorriamo a ritroso le circostanze che lo portano a finire dietro le sbarre, a non mancare l’appuntamento con il dato statistico che vuole le progioni americane piene zeppe di maschi afroamericani. Crime story fatta di scelte sbagliate, di strade percorse in senso contrario, di buon senso venuto meno sulla strada per la sopravvivenza in circostanze avverse. Una storia assimilabile a tante altre che la cronaca quotidiana ci racconta, fatta di “undun” cose non fatte, appuntamenti mancati con la vita e con le scelte corrette.
I Roots scelgono quindi ancora una volta la strada dell’hiphop conscious, quello che ci parla di storie vere, di strada, fatte di povertà. Argomento che negli anni della crisi globale, del movimento “Occupy Wall Street” e delle promesse non mantenute del governo Obama, assume significati ancora più profondi, chiudendo il cerchio proprio sulla parola UNDUN: traducibile anche con “inconcludenza”.
Questlove ce ne parla mettendo in musica il sentimento della nazione afro-americana, ricordandoci e ricordandole che i problemi irrisolti nelle strade americane sono ancora molti. Alla faccia dei tanti dischi rap basati sulla sola autocelebrazione che escono al ritmo di decine a settimana. Per un gruppo che ha fatto e detto tutto nel corso di 13 – tredici – album, non è affatto poco.
Se lo spirito originario di denuncia dell’hiphop esiste ancora è anche grazie alla masnada di Questlove. E c’è chi ringrazia.
Citazione iconica: “Lotta niggas go to prison, how many come out Malcolm X?”
Now Again. Il suono di ieri riproposto oggi in forma nuova ma rispettosa del passato. Questo il proposito dell’omonima sotto-etichetta di Egon, leggasi fondatore e amministratore dell’etichetta indipendente più importante per la cultura hiphop dagll 2000 in poi: Stones Throw. Now Again ci ripropone oggi grandi ristampe di pezzi introvabili, compilation funky imprescindibili come Cold Sweat, Kashmere Stage Band, Texas Funk, Funky 16 e tantissime altre gemme di cultura nera rispolverate e riproposte oggi su supporto vinilico.
Tra una ristampa e l’altra però, Now Again dedica alcune centellinate uscite a produttori e musicisti che ricercano ancora oggi nelle loro produzioni musicali quel suono retrò e analogico tanto caro alla black music. Tra gli artisti di casa Egon ricordiamo per esempio The Heliocentrics, collettivo di batteristi e polistrumentisti pluri-campionati da Dj come Dj Shadow tanto per fare un nome, e autori nel 2008 di un album passato già alla storia della musica funk-cinematica.
Ma se di loro si è parlato spesso in questi 3 anni, si è discusso molto meno di un altro artista Now Again: Mr Chop, produttore inglese tra le altre cose proprietario di Chesire Ape Studio Recordings, uno degli studi più ricchi di strumentazione analogica al mondo. Moog, Mini-Moog, sintetizzatori seminali, Hammond, Fender Rhodes, Hammond Organ: un tripudio di strumentazione per feticisti del nastro e delle manopole fisicamente intese. Leggermente fuori dai radar dell’hiphop strumentale odierno, Mr Chop un paio di anni fa è stato l’artefice di un ottimo disco d’omaggio a Pete Rock, costruito re-inventando i suoni del primo disco di Pete con un campionamento innovativo in chiave funky, quasi a voler invertire, fcendo il percorso inverso, l’assioma hiphop che vuole la nascita del genere ed il perpetrarsi dello stesso, basarsi sul campionamento del genere funk.
Una grande gemma incastonata nell’underground ed uscita per Stones Throw.
E’ di poche settimane fa invece l’uscita di un nuovo interessantissimo lavoro di Mr. Chop: “Switched on“, disco interamente realizzato negli studi di Ape Recording utilizzando esclusivamente la strumentazione analogica di cui sopra. Cose dell’altro mondo, anzi di un’altra era geologica. Il risultato? Un suono pieno, avvolgente, ruvido, sporco, totalmente vintage, capace di ammaliare, di folgorare e proiettare in un’epoca mai esistita: quella di un suono anni ’70 portato ai giorni nostri con un’operazione di fast forward in grado di fargli assimilare funky, hiphop e black rock, in pratica la storia della musica nera moderna, in un nanosecondo. “Solo” per risputarne qualcosa di totalmente nuovo e fuori dagli schemi.
Campionamenti da vecchie bobine hanno portato alla luce fraseggi di Hendrix, Hayes, Wesley facendoli suonare in modo nuovo sulle percussioni di Malcom Catto, batterista guarda un po’, dei suddetti Heliocentrics. Un tripudio dell’analogico e, non a caso, dell’analogia verso mondi ormai lontani, che sarebbero persi senza l’esistenza di dj come Chop e di pochi altri estimatori che grazie alla pratica del campionamento mantengono vivo ancora oggi un suono inimitabile re-inventandone in modo psichedelico e cinematico la composizione originale.
Qualche mese fa sul mio I-Pod ho iniziato a far girare un disco misterioso, uno di quelli che scarichi per sentito dire ma non ricordi ne da chi ne quando ne “il dire”.
Un album astratto già dalla copertina, nera con alcuni grafemi in stile arabeggiante. Un nome che non apre nessun cassetto della memoria, un titolo che, quello si, ineggia ad un qualcosa di sopra le righe nella cultura black. Quasi un monito di post modernismo, di post hiphop. Il disco è rimasto a girare in macchina pe un po’, tra ascolti distratti e reminiscenze non troppo convinte di album di rottura usciti ad inizio millennio.
Girando per il web su alcuni blog musicali ho poi percepito diverso entusiasmo rispetto a questa produzione, ed è così che ne ho approfondito la conoscenza, cosa che avrei dovuto fare fin dall’inizio. Scopro così che dietro al nome di Shabazz Palaces non si nasconde un gruppo di esordienti illuminati con la missione di rivitalizzare gli stilemi abstract hiphop concettualizzati dalla Anticon, caricati da Dalek, portati all’estremo dai Clouddead, bensi un mc storico, seppur underground (tanto che ammetto, non lo conoscevo) della scena new yorkese, tale Isamel Butler dei Digable planets gruppo addirittura detentore di un grammy awards negli anni 90.
Insomma ce n’è per rimanere davvero affascinati: un mc vecchia scuola che torna alla ribalta con un hiphop sperimentale, minimalista, dalle atmosfere scure, fumose, leggermente jazzate, concettuali. Un rapper della new old school che mette la voce al servizio delle atmosfere, che non punta alle punchline ma che utilizza gli echi, i riverberi confondendo la sua voce nell’atmosfera generale dei pezzi quasi come un burial fa con i suoi campionamenti misteriosi.
Siamo di fronte ad un hiphop veramente vicino alle atmosfere delle prime produzioni Anticon, ma che più che sul concetto e sul messaggio punta a creare paesaggi sonori, quasi ambient in alcuni momenti (altissimi). Un hiphop soffuso ma incisivo, con dosi bilanciate di campioni e suoni elettronici. Un mood dopato, da viaggio psichedelico ma senza esagerazioni, un andamento downtempo e, forse (i confini tra generi saltano completamente) trip hop.
E’ strano, ma Black up potrebbe essere uno dei momenti più alti di incontro culturale tra black & white music, pur senza volerlo essere probabilmente. Un esperienza antropologica più che un disco. Da ascoltare in cuffia, stesi sul proprio divano, pensando a cosa potrebbe succedere se le culture si incontrassero e capissero per davvero, se i confini sistemici saltassero, se i pianeti si scontrassero anzichè sfiorarsi le reciproche traiettorie.
Vale la pena di chiedersi se anche l’espressione sperimentale abbia assunto un nuovo senso. Personalmente credo di si. E lo scoprirò ancora più compiutamente lasciando decantare Black up nel mio stereo, facendo affiorare piano piano suoni, suggestioni e sapori inconoscibili ai primi ascolti. Fatevi un regalo ed ascoltatelo dandogli la giusta attenzione, ponendo tutto quello che sapevate del genere hiphop, sotto una luce completamente nuova. E mettete in repeat fisso “Endeavors for Never“, pezzo strabiliante di sperimentalismo jazz-elettronico-soul. Tutti a casa. Ad ascoltare.
Domenica pomeriggio, scorro le pagine virtuali di hhv.de, sito di riferimento per la musica underground al confine tra elettronica, rap, dub step, e mi imbatto in una strana copertina che riporta un nome altrettanto peculiare: Hail Mary Mallon by Aesop Rock, Rob Sonic, Dj Big Wiz. Passa una settimana ed il disco è nelle mie mani. Sulla cover è ben raffigurata Typoid Mary aka Mary Tifoide (riconosciuta solo grazie ad una ricerca su google) intenta a somministrare zuppe infette del virus tifoide a degli ignari avventori all’interno di una locanda (la storia della vera Mary, narra di una donna che ad inizio novecento fu prima portatrice del virus tifoide, che diffuse rapidamente attraverso il suo lavoro di cuoca). Con una cover così folle e con nomi del genere dietro a questo fantomatico nuovo supergruppo rap underground, non possono che esserci i presupposti per un disco memorabile. Tanto per cominciare i dischi stessi si presentano con una superficie verde minestrone mai vista prima, con al centro un cucchiaio per la zuppa disegnato sull’etichetta, invitante proponimento all’ascolto. Che sia un riferimento all’ingordigia che scatta naturale dal momento in cui un fan della fu def-jux (minuto di silenzio prego) legge sulla cover i nomi di 2 tra i rapper più metricamente dotati del sottobosco rap americano? Probabilmente si, trattandosi di un disco fatto da grandissimi nerd per altrettanto grandissimi nerd ascoltatori, direi che non ci si scappa.
Fatto sta che oltre a tutto il contorno la musica contenuta nel disco SPACCA e mi ritrovo a passare notti insonni ascoltando il suono che mancava nel mio soundsystem da almeno un paio d’anni, dall’ultima produzione di EL-P. Produzioni macro by Aesop Rock (con ovvi omaggi ad El-P come è sempre stato, anche se con meno genio) e Rob Sonic stessi, scratch anni 90 by Dj Big Wiz, metriche folli e cadenza giustapposta in pieno stile Bazooka Tooth, disco al quale paragono questo “Are you gonna eat it?” senza paura di esagerare. Ragazzi questo è un disco con cui sfondarsi le orecchie letteralmente. Suoni spaziali uniti a beat grassissimi di matrice Cannibal OX, riferimenti alla cultura underground…genio assoluto. Se “Felt 3”, l’ultimo progetto di Aesop in coppia con Murs era stato un disco monumentale ma con alcune debolezze nelle produzioni, questo “Are you gonna eat” riporta in auge il suono Company Flow senza riattualizzarlo troppo, non ce n’è bisogno (musica senza tempo e sempre avanti), e soprattutto senza smontarne i cardini principali, rimanendo fedele ad estetica, suono, contenuto. Insomma un disco da mettere lì e custodire come l’ennesima perla prodotta dalla fucina def-jux, nonostante il nome del produttore sulla costina del disco non sia più l’etichetta di Brooklyn ma la Rhymesayersdi Minneapolis. Ma chissenefrega se lo spirito ed il livello è sempre quello dei giustapposti tanto amati, quello che ha permesso la nascita di dischi che hanno creato un immaginario completamente nuovo all’interno del panorama hiphop, una cosmologia rivoluzionaria che ha di fatto salvato la musica hiphop e l’ha sottratta al giogo degli incatenati senz’anima.
Voto 8 e non dite che sa di già sentito, con roba così bisognerebbe colazionare tutti i giorni.
Si chiama Oliver Thomas Johnson, a vederlo sembrerebbe uno sbarbatello qualunque, uno ai quali fregare la merenda regolarmente sull’autobus della scuola, l’amico strafatto di topexan a cui alla fine tutti vogliono bene perchè durante i compiti in classe fa copiare, ed in fondo non rappresenta un’alternativa credibile per il cuore della compagna figa dell’ultimo banco. Invece probabilmente sfigato e brufoloso lo è anche, ma nei circoli di quelli che contano, a distanza di qualche kilometro dalla cameretta in cui si rintana a produrre, si fa chiamare Dorian Concept ed è un dj/produttore austriaco di livello assoluto che, poco più che vent’enne, è riuscito a strappare un contratto discografico all’etichetta di musica elettronica indie per eccellenza: Ninja Tune! Ma come? Sì, proprio così, capita che spesso in ambiti musicali di confine, l’essere nerd fino al midollo paghi, e che passare il tempo a perfezionare l’utilizzo dei synth alla lunga porti più lontano rispetto al frequentare i club in cerca del marpionaggio facile. Capita che essere apparentemente sfigati si riveli solo una coloritura in più in un quadro disegnato ad arte, con tecnica sopraffina.
A poco più di 2 anni dall’uscita di “When planet Explodes“, primo album ufficiale dell’Oliver, Ninja Tune ha recentemente dato alle stampe l’EP “Her Tears Taste like Pears“, breve e preziosa sorta di manifesto alla new wave europea della musica elettronica all’incrocio tra dub-step, ambient, DMP ed electro. Una breccia aperta da Hudson Mohawke e allargata a forza di dj set nei club di Vienna proprio da Dorian, alchimista perfetto, studiato, freddo e calcolatore, quanto abile cesellatore di suoni da camera quanto da dance floor per la tarda serata. La sua musica sa essere celebrale quanto godereccia, impegnata quanto frivola e pazzerella. Sicuramente per niente prevedibile, come d’altronde già si era compreso in “When planets explode”.
Ed “Her tears”non sarà sicuramente un disco perfetto (troppo breve per essere definito tale) ma senza dubbio rappresenta una direzione, una freccia segnalatrice a chi vorrà intraprendere la strada della sprimentazione nella musica elettronica nei prossimi anni, senza per questo scordarsi nel frattempo di far divertire, ballare ed ispirare. Per una musica fredda, “tedesca” e da dancefloor non è poco.
Di Ghostpoet ho sentito parlare su Blaluca circa 6 mesi fa. Una manciata di pezzi, alcune note biografiche ed un nome: Gilles Peterson.
Da lì in poi si trattava solo di attendere l’uscita del primo LP del poeta inglese, naturalmente per Brownwood record, l’etichetta di Gilles.
Il momento è arrivato, gli ascolti si stanno protraendo nel tempo ed ora posso dire che “Peanut butter blues and Melancholy jam” sarà uno dei dischi dell’anno e, assieme alla perla di James Blake, uno degli album più rappresentativi di questi primi anni post anni zero.
La voce di Ghostpoet è quella di un poeta stralunato, a tratti ubriaco, a tratti lucido e libero, altri imprigionato nelle sue stesse atmosfere notturne e lascive. Un qualcosa a metà tra Roots Manuva e la sua voce sbrodolante, acquosa e l’abilità di ricreare paesaggi urbani di un Beans o di un Mike Ladd. Pochi eguali comunque, solo verosimiglianze.
E, come tutti i nomi appena citati, Ghostpoet produce pure. Atmosfere fumose, nebbiose, dubstep con reminiscenze grime e bagliori dell’hiphop più ispirato. Ma è qualcosa di ancora diverso dalla somma delle parti. Basta ascoltare il singolone “cash and carri me home” per capire che il Nostro suona qualcosa di diverso. Di insperatamente nuovo.
Ecco, per un vecchio amante dell’hiphop sperimentale, quello di certe produzioni Warp e Ninja Tune, potrebbe rappresentare un nuovo squarcio in cui tuffarsi a capo chino. Un genere a parte, una musica con un groove irresistibilmente soul pur provenendo dalla scena UK bass.
La dopata “Run Run Run” e la notturna “Gaaasp” sono affreschi nuovi di situazioni urbane moderne, capaci di unire Londra, Berlino, Williamsburg e Bristol in un solo, profondissimo battito. Musica nuova, speriamo segni l’inizio di un trend.
Chissà perché, per quali strane e contorte motivazioni che spesso e volentieri vanno sotto il nome di sviste e che ancora più spesso fanno rima con “piccoli budget e scarsa distribuzione“, dischi come “Fauna” di Jneiro Jarel vengono totalmente ignorati dalla critica musicale (web e cartacea, al di qua ed al di là dell’oceano). Ancor più peculiare il fatto di trovarsi di fronte ad un LP concettualmente impegnato, ancorché senza messaggi vocali (sarebbero superflui) ma zeppo di riverberi e di echi terrestri, in tema sia con un argomento mirabolante come quello ambientale, sia da un punto di vista strettamente musicale, con quel modo di produrre nella zona grigia tra hiphop ed elettronica che oggi è tanto osannato (a ragione!)pensando a nomi come Flying Lotus e Madlib. Beat quantizzati, synth espansi, elettronica “sporca” e ruvidamente hiphop.
Praticamente ciò che Jneiro Jarel, produttore inglese di origini brasiliane, predica da ormai 10 anni, dai tempi di “Pieces”, portando il “genere” ad un altro livello con il mai troppo osannato (a torto, marcio!) progetto “Shape of Broad mind” a nome “Dottor Who Dat?“. Fauna si inserisce perfettamente nel solco di produzioni come Shape o il misconosciuto (e distribuito solo on-line) “Beyond tomorrow” che nulla hanno a che invidiare a Flying lotus per struttura, complessità, rimandi. Anzi, sono se mai leggermente più fruibili perché meno jazzate. Però raccolgono al loro interno anche elementi di brasiliantime, afrobeat, bossanova, mescolando culture e costumi e piegando la musica alle proprie esigenze espressive.
Rimane un mistero di come Jarel rimanga fuori dal giro dei nomi che contano pure dopo produzioni del genere.
Ecco perché ho voluto nel mio piccolo rimediare, parlandovi di Fauna, disco assolutamente incantevole da inserire tra un “Keepintime” ed un “Los Angeles” con la stessa naturalezza con cui vi inserireste l’utlimo “Beat Kondukta”.
“New York: my mic is on fire!” Il grido è di quelli forti, di quelli capaci di far intendere propositi propositivi.
E’ l’affermazione in puro hiphop style di Beans, ieri Antipop (dopo le registrazioni dell’ottimo Fluorescent Black il Nostro non ha promosso l’album in tour con gli altri 3 membri del giro) oggi Anticon (serviva un peso massimo all’etichetta di Oakland dopo la dipartita di Pedestrian prima, e di Sole dopo). E se da una parte il titolo del nuovo disco inganna “End it all”, dall’altra suggerisce un nuovo inizio per l’ MC/Slammer new yorkese.
Al giro di boa anticon, Beans si presenta con produzioni macro e con un rollercoaster di rime in chiave slam da lasciare senza fiato. Alle macchine 2 nomi: Four Tet, Bumps (le batterie di Shadow vi dicono niente?), Son lux, Nobody, Tobacco.
Al microfono il solo beans ma in piena forma e coadiuvato anche da Tumbe Adebimpe (TVOR) in un pezzo evocativo quanto aggressivo che unisce indie-rock e atmosfere dub in un connubio perfetto. Beans fa tesoro dei silenzi folk e degli extrabeat di “Tomorrow right now” sperimentando però meno rispetto al suo primo disco solista, parte dalla convinzione mostrata in “Thorn” (forse il suo disco più completo prima di questa ultima fatica) e ingloba in qualche modo anche le divagazioni jazzistiche di “Only“, fondendo tutto assieme nella sua prova più convincente di sempre.
End it all è il suo capolavoro perché nè rappresenta compiutamente tutti i lati: slammer, rapper, producer, visionario. Il tutto condensando suoni, sensazioni e vibrazioni in pezzi che solo in pochissimi casi superano i 3 (tiratissimi) minuti di durata. Affreschi dub su tappeti elettronici, contorsioni metriche e musicali liquide su beat fluidi e metamorfici. A unire il tutto una voce spaziale da “shock city maverick“. Ed è dolce naufragare negli spazi immaginari che si creano all’ascolto. Provare “Blue Movie” (il video lo trovate qui sotto). Unica avvertenza: difficile tornare indietro se non con il rewind.
Antonio Moresco - I canti del caos
Antonio Moresco - Gli incendiato
Antonio Moresco - Merda e luce
Roberto Saviano - Gomorra
Angela Davis - Aboliamo le prigioni?
Malcom X - Autobiografia
Jonathan Lethem - Brooklyn senza madre
Amir Baraka - il popolo del blues
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Philip Dick - Le 3 stimmate
Philip Dick - La svastica sul sole
Philip Dick - la penultima verità
Aldous Huxley - Il mondo nuovo
Corman McCarty - La Strada
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