Posts Tagged 'film'

Bronson: you Drive me crazy!

Il nome di Nicolas Winding Refn potrebbe non dire molto al grande pubblico, soprattutto a quello italico. Sarà che i suoi film nel nostro paese passano sempre per brevissimo tempo al cinema, il tempo di un venerdì sera al Lumierè o di un mercoledì nei multisala. Sarà che l’Academy ci ha messo del suo ignorando alcuni suoi capolavori diversamente osannati a Cannes, Londra e Sundance Festival, contribuendo a far passare in sordina anche l’ultimo suo film…quel Drive che nel 2011 è stato a mio parere (e non solo mio visto che Cannes gli ha dato la palma d’oro per la regia)  il miglior film dell’anno, quello con più spunti e poetica cinematografica.

E cosa spaventa così tanto nei film di Winding? Forse l’anticonvenzionalità dell’approccio con cui viene presentata la violenza sul grande schermo: come una sorta di sfogo fanciullesco di una rabbia repressa, come un atto liberatorio mal accettato dalla società. Come una deviazione quasi naturale e necessaria, un de-lirio, un’uscita dal solco ordinato preposto per noi tutti. Si spiega forse anche così il ritardo con cui in Italia (ma anche in altri paesi europei) è arrivato in distribuzione Bronson, film realizzato da Winding già nel 2008 e arrivato a noi solo nel corso nel 2011, passato sotto semi-silenzio e confezionato direttamente per il mercato dell’home-video.

Bronson è la vera storia di Charles Bronson, criminale inglese contemporaneo psicotico ed iper-violento che fin dai primi anni ’70 è conosciuto come il criminale più famoso dello United Kingdom. Oltre 20 anni di cella in isolamento, centinaia di prime pagine sui quotidiani nazionali, un numero incalcolabile di persone picchiate fuori e dentro le numerose prigioni in cui è stato internato, diventando di fatto una vera e propria celebrità, un anti-eroe nel senso più revisionista del termine.

Ho visto di recente il film in DVD e devo dire che, sebbene un paio di gradini sotto a Drive, anche questa pellicola del regista svedese si contraddistingue per diversi approcci originali ed estremamente personali a regia (Winding fa un grande e diversificato uso delle ottiche grandangolari che contribuiscono a schiacciare l’immagine ed a creare per converso un effetto claustrofobico quasi parossistico delle celle di progionia già piccole e anguste di per se), fotografia (con luci in stilo circo), musica (dance anni ’80 anche qui) e tempi narrativi (giustapposti). E la violenza per cui probabilmente il film è stato fermato per un po’, assume un senso estetico di livello assoluto: un po’ come in Drive appunto (si veda la scena del bordello) o in Arancia Meccanica, o ancora (stiracchiando) in Funny Games. Cosa che a ben vedere, vale da sola il prezzo del biglietto DVD.

Un film che vale la pena di vedere quindi, non solo per saperne di più su Bronson (da sapere c’è davvero poco: era un picchiatore puro, senza scopo se non lo stesso picchiare ed essere picchiato), ma soprattutto per rifarsi gli occhi con un’estetica tutt’altro che scontata, tutt’altro che già vista.

Ecco appunto, se poi questi film ce li facessero pure vedere non sarebbe poi tanto male.

Voto: 7+
Luke

 

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Tron, un futuro nostalgico

L’approccio a Tron Legacy, il nuovo film Disney basato su un classico della fantascienza anni ’80, richiede consapevolezza
Per i profani o più semplicemente per le nuove generazioni, può trattarsi di un blockbuster qualunque, ma quando ci sono di mezzo estetica cyberpunk come nemmeno William Gibson avrebbe osato immaginare e continui ganci e rimandi alla cultura pop anni ’80, ovvero quella dei primi videogame, dei sintetizzatori, di Jean Michelle Jarre, dei primi viaggi (mentali) nel cyberspazio, è richiesto ben di più che la sola sospensione dell’incredulità, come genere normalmente impone.

Tron, la cui trama può essere letta qui, rappresenta per chi è cresciuto negli anni ’80/’90, un capolavoro di estetica nostalgica in cui principalmente si celebra l’evoluzione massima di ciò che trent’anni fa era ancora allo stato potenziale, della rete e delle sue infinite possibilità di creazione di sistemi perfetti ma pur sempre perfettibili, di abbandono totale della dimensione fisica e solitaria in favore di quella digitale iper-interconnessa. Ma con un fondo, fortissimo, di nostalgia per la tangibilità, per il materiale. Ne è esempio lampante il luogo in cui si trova il mega computer che apre sul grid, il mondo scoperto nel primo film (Tron, 1982) dal protagonista: una sala giochi dismessa in cui lo spettatore è accompagnato dalla colonna sonora “Sweet Dreams”, chiaro riferimento a “il piccolo grande mago dei videogames“, film generazionale per chi oggi ha tra i 25 ed i 35 anni. Oppure ancora la fisicità stessa del Grid, composto non da semplici numeri o spazi virtuali come Matrix ci ha insegnato a credere in epoche recenti, ma da piattaforme luminiscenti pesanti, dure, lucide. O ancora il vero protagonista del film…il DISCO, la memoria hardwear, il contenitore, l’anima solida di ogni “programma” o essere vivente…quella che può essere riscritta, formattata o addirittura rubata.

Questo particolare aspetto, oltre a tutti gli effetti speciali, alla colonna sonora azzeccatissima e imprescindibile dei Daft Punk (il loro cammeo nel film è degno di citazione), alla tensione costante che si respira lungo tutto il film, oltre anche all’immortale Jeff Bridges, è ciò che più mi fa riflettere alla fine di due ore intensissime di puro orgasmo cinematografico, forse perchè è la generazione nata negli anni  ’70/’80 (sempre che tale possa essere definita) l’ultima ad aver avuto la possibilità di vivere a pieno l’epoca analogica e al contempo ad aver potuto varcare con semplicità, rispetto e consapevolezza (a posteriori chiaramente) i confini del digitale. Ed è stata sempre questa generazione a trasformarsi di fatto nell’ultima in grado di rendersi conto del valore pratico, estetico, immediato, materiale e soprattutto reale dell’analogico, quanto dei suoi limiti.

Per questo Tron rappresenta molto di più che un film di fantascienza per “vecchi” nostalgici proiettati nel presente e nel futuro come il sottoscritto. Sa di strada fatta, di sguardi all’indietro quanto di corse in avanti.

Luke

The social network

E’ uscito in questi giorni “The Social Network”, film generazionale diretto da David Fincher (Fight Club, Seven…) e sponsorizzato dal più grande e conosciuto “connettore” della rete. Un film non semplicissimo da realizzare, basato per lo più su dialoghi, su battute veloci, su scambi di opinioni continui sul “mondo altro” rappresentato dalla rete, dai suoi sistemi. Ma un film per niente banale. Ci voleva un genio come quello di Fincher per portare sullo schermo in modo avvincente la storia di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook,  e per renderla appassionante e serrata quanto un film d’azione. Non era un compito facile, anzi, sarebbe stato semplice proporre un polpettone biografico in grado di annoiare fin dal primo minuto, ma Fincher d’altra parte ci ha già abituati ad uno stile di narrazione in grado di tenerci sempre attaccati allo schermo. Non fa eccezione appunto questa pellicola che grazie a dei (semplici) escamotage narrativi e di sceneggiatura, destruttura la linearità della trama e propone un plot intrigante quanto l’idea stessa di Zuckerberg, portandoci il suo genio, la sua comprensione delle relazioni umane ed un sacco di tecnicismi da nerd, in modo simpatico e divertente. Merito anche di chi ha scritto i dialoghi: sempre brillanti (pure troppo, al limite dell’irreale per immediatezza e lucidità) e mai scontati.

Una pellicola che non annoia insomma, se mai deborda, grazie ad una colonna sonora da Oscar di Trent Raznor, leader dei Nine Inch Nails, che con i suoi synth esagerati e suoi piani melanconici, avvolge, distrae, cattura, affascina (procuratevela è una perla). Una pellicola che fa da ideale sequel a quel “i pirati della silicon valley” che ci aveva fatto conoscere le vere storie dei primi geniali miliardari informatici, vedesi Steve Jobs e Bill Gates (che appare anche in Social Network per un cammeo), aggiungendoci il contesto degli anni zero, delle sue relazioni sociali stravolte, ancorchè questo faccia solo da sfondo alla storia personale di Mark Zuckerberg e si dimostri a ben vedere il limite vero di un film comunque consigliato perchè fresco, godibile e ben interpretato da Jesse Eisenberg (volto già apprezzato in Adventureland) e da un sorprendente Justin Timberlake.  Voto 7

Luke

Shutter Island: il mistero che non c’è

Credo che Shutter Island sia un film intelligente.
Martin Scorsese attraverso di esso riesce ad affrontare temi quali il delirio post traumatico, l’intellegibilità dei sogni, la psicologia, i diversi approcci possibili alla psichiatria, il labile confine tra lucidità e follia, mescolandoli assieme sapientemente e struttulandoli in modo credibile con abili scelte di sceneggiatura e di regia e soprattutto masticandoli un po’ prima di darli in pasto alla platea. Scorsese conosce il cinema, sa che comunicare significa far comprendere al proprio uditorio un messaggio, una storia. Conosce il linguaggio di Hollywood e lo utilizza cercando di accontentare sia la massa accorsa per il titolo da blockbuster, sia chi nel suo cinema ricerca la finezza, la ricerca, l’impalcatura.
Il regista mette assieme tanti elementi (esperimenti nazisti su pazienti psicolabili, trauma da campo di concentramento, perdita d’identità, cospirazioni governative, approccio Basaglia alla cura psichiatrica) cerca di nasconderli confondendo un po’ le acque, ma senza complicare troppo, senza permettere che il suo pubblico se ne esca dalla sala con dubbi irrisolti. Lo fa, paradossalmente, attraverso un Thriller che proprio per come è stato concepito, per come è condotto, porta a credere nel mistero, a ricercarlo e forse anche a pretenderlo! Ecco perchè si sono letti tanti pareri negativi sulla scontatezza del finale, sull’eccessiva chiarezza di alcuni passaggi che sarebbe dovuti essere più criptici. In realtà l’intento credo non fosse quello. Bensì trasportare lo spettatore in una dimensioni di confusa realtà, dandogli continui ganci per comprendere la storia al meglio. Senza esagerare con l’ermetica, che non ha mai contraddistinto il suo cinema, senza tradire la propria voglia di comunicare. Può piacere, può infastidire, può lasciare indifferenti se non si coglie questa dimensione del suo modo di fare cinema. Personalmente pur amando i finali a sorpresa e le sceneggiature intricate, è proprio quello che ho apprezzato di più.
Oltre ad un Di Caprio da Oscar ovviamente…

Psy


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