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Best album 2016 – compiled by Luke

E’ un giochino troppo divertente e una sorta di diario che prosegue ormai dal 2009, quindi ecco anche quest’anno puntualissima la mia personalissima classifica dei migliori album dell’anno. Tutta musica rigorosamente nera e derivata in un anno in cui la black music è stata protagonista sia nell’underground che nel mondo mainstream grazie a una commistione di impegno sociale, nuova consapevolezza black e contaminazioni sonore trasversali in grado di arricchire un genere che stava stagnando un pochino negli ultimi anni. #blackalicious baby!

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Chance The Rapper – Colouring Book
ufficialmente si tratta di un mixtape ovvero di un disco non proprio ufficiale ma contiene talmente tante idee, di un nuovo ghospel applicato all’hiphop con la positività che contraddistingue l’mc di Chicago, che non può che essere considerato uno dei capolavori dell’anno in ambito black. Con buona pace dell’omnipresente Anderson .Paak…che arriva secondo.

Anderson .Paak – Malibu
Sconosciuto ai più fino allo scorso anno prima che la sua voce comparisse in “Compton” disco di Dr.Dre, il rapper californiano è sicuramente il personagio dell’anno in ambito black anche se ancora sotto traccia rispetto ad altri suoi contemporanei come Chance The Rapper o Mac Miller. Malibu ed il disco con Knxledge per il duo NXworries, sono tra i dischi più solidi, freschi e nuovi del 2016. Contaminazione è  la parola d’ordine di Paak, e in Malibu ce n’è a profusione.

Beyoncé – Lemonade
La sorpresa dell’anno: la regina del pop r’n’b ha confezionato un album solidissimo dalle prodonde radici black come raccontano i suoni campionati e risuonati da Isaac Heyes e dal funeral Jazz di New Orleans. Ci si mette pure il king della scena underground elettronica James Blake ad impreziosire un album che pesca musicalmente a piene mani dalla scena indie-electro portando in superficie (mainstream) suoni altrimenti relegati al sottosuolo. Un merito non da poco chiaramente ignorato dalla stampa specializzata che ha parlato solo dei riferimenti lirici a Jay Z ed ai suoi possibili tradimenti. Di cui francamente non puòe non dovrebbe importarci di meno. Chapeau B.

Erykah Badu – Caint use my phone
La Badu ha preso il concept di Drake, lo ha fuso con i suoni del suo Telephone (già incisa nell’album Worl War part 1) e ne ha fatto un disco monumentale pur senza volerlo dato che si tratta di poco più di un mixtape. One for the ages, tra i migliori dischi r’n’b ever.

James Blake – The Colour in Anything
Sofferto, sudato, maledetto, malinconico, poetico: è il soul elettronico di un ragazzo bianco inglese che ha rivoluzionato la musica elettronica, contaminato il pop mainstream e che ci ha regalato un album semplicemente perfetto.

Jamila Wood – Hevn
Già sparring partner di Chance The Rapper e suo ideale contraltare femminile (per timbro vocale e metriche), Jamila Wood ha tirato fuori un disco delicato quanto prepotentemente black (ascoltarare “I’m very Black”) e soave. La gemma nascosta del 2016.

Kanye West – The Life of Pablo
Disco controverso come tutte le ultime produzioni di Kanye, ha schifato molti, estasiato altrettanti. Personalmente lo ritengo un album di ghospel profano che farei ascoltare a Wendy Rene (soul singer anni 60) nel caso in cui decidesse di aggiornarsi sulle direzioni prese dalla musica nera negli ultimi anni. Sempre sopra le righe, sempre sbagliato, eppure così cool e geniale allo stesso tempo. Irrinunciabile.

Frank Ocean – Blond
Frank è obiettivamente la voce più importante oggi sulla scena nera modiale. Ha un tocco sublime su ogni accordo, è pura melodia umana, è straniamento malinconico. E’ omosessuale e ha pure molto da dire. Un album che farà tendenza.

Solange – A sit at the table
Mentre la sorella Beyoncé ha pensato di ricorrere ad un estetica super afro-americano-centrica per vendere i suoi dischi ad un pubblico a maggioranza bianca, la sorella Solange si è permessa il lusso di passare sottotraccia con un album estremamente complesso nei contenuti, tutti riferiti all’afrocentrismo e alla fierezza black (e in questo il pezzo “hairs” ne è il manifesto) quanto diretto musicalmente. L’album impegnato dell’anno in un anno fatto di rivolte sociali, populismo e razzismo dilagante nell’era pre Trump.

Jordan Rakei – Cloak
Soul singer australiano, Rakei mi ha colpito per estensione vocale e per la disarmante semplicità nel mettere d’accordo tutti, il classico disco da sottofondo per una cena a base di discorsi impegnati o di semplice star bene a tavola. E ovviamente molto più di questo.

Miles Davis & Robert Glasper – Everything is beautiful
Dico di rara intensità emotiva non foss’altro che per il comparire qua e là di nuovi fraseggi e frasi vere e proprie del nostro compianto Miles Davis, su gentile concessione di Blue Note, etichetta che in Robert Glasper ha di fatto il King assoluto del Jazz contemporaneo. Jazz citazionista ma per tutti, e non è facile.

Jamie Woon – Making time
Voce cristallina quella di Jamie già sentita sia su basi cupe (Burial) nel disco precedente, quanto su pezzi pop/soul da camera (Taku) e qui forse al suo meglio di sempre grazie, soprattutto nella prima parte, ad un disco suonato in chiave magistralmente funk.

Mac Miller – The Divine Femminine
Un disco hiphop che vuole essere pop, con moltissimi riferimenti al mondo femminile ma in maniera meno maschia e cafona di quanto sia solito fare il genere della doppia H. Una sorpresa che richiede diversi ascolti prima di gridare al miracolo e consegnare questo disco alla storia del rap underground 2016.

Kendrick Lamar – Untitled Unmastered
Non avrà un titolo e non sarà (?) masterizzato, ma 10 pezzi rap di Kendrick Lamar su basi jazz come nei migliori momenti di “To Pimp a butterfly” va già di diritto nel rap da cineteca. Non è un disco semplice, come non può esserlo un disco impegnato politicamente e musicalmente. E per questo grande merito a Kendrick per avercelo regalato in un momento in cui lo status di superstar prezzemolina (sta regalando featuring a destra e a manca da mesi ormai) gli permetterebbe di rilasciare dischi molto ma molto meno complessi e stratificati.

Common – Black America Again
Nell’anno del ritoprno al rap impegnato civilmente e politicamente, nell’anno dei riots per le strade americane e delle sommosse popolari del “black lives matter” non poteva non far sentire la sua voce il rapper di Chicago Common, che torna idealmente a tematiche e sonorità sentite anni fa nel capolavoro Like Water For Chocolate. Un inno alla black america nell’anno della sua fine ufficiale. Il re è nudo.

@lucamich23

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Quando il jazz salvò l’hiphop – da Kamasi a Lamar passando per gli NWA

IMG_20150807_222004E’ passato un po’ di tempo da quando ho scritto l’ultima volta su questo blog, spazio virtuale reso spesso necessario per dare forma a pensieri e per far fluire passioni e suggestioni; in mezzo c’è stata tanta musica, tanta evoluzione, un mese vissuto nel cuore di Harlem a capire dall’interno la cultura di cui mi piace parlare, scrivere e che mi esalta ascoltare, vivere, respirare: quella black, quella solo parzialmente rappresentata dall’hiphop e completata in modo sublime dal Funk, dall’approccio prima che dalla musica Jazz, dal Soul inteso come anima di strada, dalla street culture troppo spessa rappresentata come un genere da vendere anzichè per quello che è veramente: un flusso di stili e contaminazioni che si fanno cultura dal basso.

E’ passato un po’ di tempo anche perchè oggi i pensieri si fanno complessi e spesso districarsi tra le evoluzioni culturali-musicali, lasciando fuori il frastuono dei commenti sterili sui social network, degli slogan pro o contro il tal pezzo o il tal artista, non è cosa semplice. Trovare il tempo per interpretare neppure. Facile codificare i singoli di Drake come “the new thing”, facile far “fare il giro” a pezzi tanto vuoti da diventare tamarri, a simboli tanto manieristici (Kanye?!) da diventare “roba per cultori” del genere anzichè spazzatura quale forse è per davvero (ma chi lo dice se l’establishment musicale crea i personaggi e chi ascolta non ha più riferimenti per giudicare?). Facile? No, difficile.

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Cambiano i paradigmi, il rap diventa un movimento per adolescenti nemmeno più incazzati, che anzi, scompaiono quando l’hiphop fa sul serio come quando salgono sul palco a Milano i Run The Jewels dell’ex Definitive Jux El-P e dell’ex Dungeon Family (mio dio, chi erano costoro?) Killer Mike, e ti ritrovi a seguire il concerto con Ensi, Fritz Da Cat, Lord Bean aka Luca Barcellona, gente che la storia dell’hiphop l’ha fatta in Italia e che le nuove generazioni in gran parte nemmeno conoscono. Paradossi moderni di un genere che ha fatto della conoscenza delle proprie radici e di quelle della musica che campiona (funk, jazz, blues, soul appunto) uno dei mantra e dei credo principali per sapersi auto alimentare e celebrare, salvo poi restare in molti casi puramente auto celebrativo e ghettizzarsi da solo in angoli non bene identificati quasi quanto quelli cercati da Foreman sotto la pioggia di pugni di Alì.

Cambiano i riferimenti eppure sotto la superficie (beneath the surface, come profeticamente pronunciava Ghostface Killah del Wu-Tang Clan, ancora oggi tra i pesi massimi dell’hiphop capace di unire vecchia e nuova scuola in un’ideale ponte newyorkese tra vecchio e nuovo, passato e presente) si muove tanta buona musica che a volte sfonda la barriera imposta dall’establishment musicale e sovverte anche gli schemi di quest’ultimo, sempre pronto  sfornare hit di rapido ed insipido consumo.
IMG_20150810_092305Ed io non scrivevo da un po’ perchè questo fenomeno era in atto, non ancora compiuto, meritava un’analisi in silenzio. L’hiphop quello più vero, quello che fa di contaminazione, evoluzione e sperimentazione, nel frattempo si è evoluto in musica elettronica di confine: ragazzi nerd dietro ai propri laptop e campionatori hanno originato dischi memorabili al di fuori dei quattro quarti, prendendo più loro dagli insegnamenti hiphop dei nuovi esponenti o supposti tali del genere. Sono nati i Robot Koch,  i SBTRKT, i Godblesscomputers, i Jamie XX, l’ultimo capace di lavorare anche con Gill Scott Heron che l’hiphop l’ha anticipato anni fa con il suo “revolution will not be televised” (cosa che si sta verificando oggi per altro), e di far risuonare la sua voce campionata al Terminal 5 di New York lo scorso agosto in mezzo ad una bolgia di ragazzini festanti, che di Gill Scott non hanno mai sentito parlare ma che sentivano che sì, qualche cosa quel pezzo gli comunicava. Forse tanto quanto il campione di “Good Times” dei The Persuasions, Neri per caso originali riscoperti proprio grazie al campionamento di Jamie XX nell’ultimo disco.

Nuove contaminazioni, fusioni, commistioni…e all’improvviso uno (s)conosciuto: il Jazz. Robert Glasper jazzista moderno si è messo a dar vita al suo “Experiment” tirando in ballo Mos Def ed il soul della Badu aggiungendo i vocoder cari ad Herbie Hancock; il nipote di Coltrane al secolo Flying Lotus, ha deciso che i suoi esordi di omaggio a Jay Dilla potevano fermarsi lì perchè era necessario procedere verso un’altra strada provando a contaminare la sua Los Angeles, quella degli NWA e delle violenze grauite santificate in “Straight outta Compton“, quella del gangsta rap di Dr.Dre e Snoop Dogg su tutti, con qualche cosa di più di qualche eco jazz alla Guru Jazz Matazz (per altro capolavoro di commistione di generi dell’era 90’s dell’hiphop matrice East Coast), portando un approccio Jazz alle composizioni rap in cui voce e strumento diventano la stessa cosa: saltano le regole di metriche e barre e finalmente anche il rap può godere di un approccio free, fresco ed energico…per palati più colti e fini.


Già, Flying Lotus, uno che viene osannato da chiunque ai festival di musica elettronica, ma che riesce a suonare al Vanguard di New York come suo zio venendo indicato come la cosa più significativa successa in campo Jazz dai tempi di Miles Davis, ed allo stesso tempo di prendersi Snoop Dogg ed il suo gangstarismo per elevarlo assieme al rap consapevole di Kendrick Lamar.
Kendrick: il nuovo paladino del conscious rap americano che nei propri storytelling dialoga con Tupac, cita Malcom X non per piaggeria ma per profonda conoscenza del tema razziale, si chiede dove lo sta portando tutto questo e con lui la cultura afro-americana e quando sale su un palco (visto al Primavera Festival a Barcellona) si portam una band di 5 componenti sprigionando un groove di cui sono capaci forse solo i philadelphiani The Roots.

Il rap si eleva con Kendrick a musica per palati fini senza perdere la sua essenza di strada. Si confonde con il jazz e con le melodie del basso elettrico di Thundercat, altra scoperta di Flying Lotus per la cui etichetta brainfeeder incide due dischi monumentali ridando dignità funk al basso elttrico con cui negli anni hanno scherzato i gruppi P-Funk capitanati da George Clinton, che ne frattempo duetta con D’Angelo sul suo Black Messiah, uno dei dischi forse più importanti degli ultimi 10 anni in ambito black music, uscito in un 2015 ricco di blackness come non accadeva da anni. Thundercat dicevo, capace di passare dal suo album solista tra jazz ed electro soul, alle produzioni per Lamar e Lotus (fondamentale il suo apporto in “You are Dead”) per poi entrare a far parte del super gruppo Jazz messo insieme dal sassofonista Kamasi Washington alle prese con il monumentale “The Epic”, disco uscito ancora una volta per Brainfeeder etichetta di Flying Lotus e che vede nei pezzi suonati con Thundercat dei veri e propri capolavori sospesi tra Coltrane, Miles e Sun Ra, citando e campionando ancora una volta Malcom X. E pensare che proprio Kamasi è nascostro dietro a molte produzioni dell’ultimo disco di Kendrick, Pimp like a butterfly…

Kamashi Washington's new album, The Epic, comes out May 5

Kamashi Washington’s new album, The Epic

Intrecci infiniti, suoni che si evolvono in continuazione verso un’epica evoluzione del concetto di soulfood, cibo per l’anima, cosa che la musica rappresenta per gli afro-americani, e che di singoli faciloni da radio non se ne fa un benemerito, salvo poi collimare in pezzi da club, consapevolmente, in cui puoi trovare a duettare Kendrick con il socio Asap Rocky su ritornello di Drake.

Ecco perchè non scrivo di getto, perchè la realtà è meravigliosamente complessa. Come associare PIMP e BUTTERFLY nel titolo di un album che riassume perfettamente il senso di tutto questo sfogo digitale. Evoluzione è ricombinazione. Siamo pronti.

Luca “Luke” Mich
twitt: @lucamich23

 

Falling Trees – Mixtape autunnale tra dubstep e hiphop

Autunno, sensazioni multicolori, cambiamenti fisici e mentali. Tempo multisfaccettato.
Ho compresso tutto questo in un mixtape confezionato con tracce uscite a ridosso o in questo periodo. Robot Koch, Modeselektor, Paul White, Exile, Example, Kasabian, Antipop Consortium, Rustie, Shabazz Palaces, Kanye West, Jay-Z.

Buon ascolto autunnale.

Luke

Per scaricare la playlist cliccare sulla freccia nella barra degli strumenti di soundcloud.


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Disco dell’anno 2016

Chance The Rapper - Colouring Book

Libro del momento

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